Testi critici

Lo sguardo di Linda


Quando si va a pesca di una rana, che si trova? Generalmente delle rane, raramente dei funghi, perché non ne crescono negli stagni – Il che significa che, per scoprire qualche cosa, non bisogna partire a caso…
Dario Fo

Teodolinda Caorlin è una costruttrice silenziosa e paziente, capace di verità quotidiane e grandi intuizioni nel proprio agire. La realtà, sembrano dirci le sue donne simboliche, le impossibili soglie e gli scialli destinati all’usura del tempo, è infinitamente più drammatica e complessa di ogni immaginazione. Il lungo percorso di questa artista – nota in ambito internazionale come una delle più originali esponenti della Fiber Art – ha assunto sempre più i connotati di una vera e propria fenomenologia dell’esperienza creativa. Linda parte dalla forma, ma non in quanto espressione esclusivamente individuale, e quindi suscettibile di ogni arbitrario sperimentalismo. Piuttosto, individua una solida struttura che deriva il proprio rigore dall’essere enunciazione di un modo condivisibile, appartenente all’esistenza umana. Accidia e Gola, Lussuria o il nodo cruciale della Paura : quasi paradigmi, i grandi lavori di Animula vagula blandula – nuova installazione che a Palazzo Mocenigo viene esposta per la prima volta – pongono in scena un dramma autofondante, assoluto. Mnemotecnica estrema, libera da vincoli, che si nutre dei propri aspetti fabbrili. Ancora una volta, luoghi ed immagini della coscienza si pongono come forme consuete del vivere, a cui l’artista attribuisce una valenza primaria. Di filo in filo, sul battere del telaio, fra acqua e terra: così ogni manufatto, in cui talvolta appaiono luminescenze marine, dal sapore musivo, si fissa per una propria eccezionalità (qualità sottile, non data da eventi straordinari, ma dall’evidenza del particolare). Per queste ragioni, l’opera di Linda è sostanza allestita e, allo stesso tempo, maschera di sé, spesso venata da una lieve nostalgia. Il suo fare possiede una meravigliosa qualità plastica, un assetto tridimensionale dovuto anche al sapiente utilizzo delle tecniche. È il tessuto stesso a fungere da codice: mai modalità accessoria, piuttosto funzione di un agire artistico che, da quel medium particolare (il filo e la sua lavorazione) deriva la sua stessa ragion d’essere. Ogni sperimentazione, ogni tentativo, ogni cifra stilistica riconoscibile (pensiamo all’ordito libero di molti pezzi significativi) definisce lo spazio costruttivo e lo codifica. Tuttavia, nonostante stia perseguendo obiettivi precisi ed utilizzi gli strumenti giusti (come il pescatore di rane di Dario Fo), il risultato artistico di Linda Caorlin non consiste tanto nel carpire – attraverso la tematica – il valore normativo dell’opera, quanto piuttosto nel consentirci il passaggio oltre la sua impossibile soglia. Acquista importanza, in tale processo, sia la via che l’artista percorre per raggiungere l’imago (mesi e mesi di paziente lavoro a telaio, alla ricerca della resa migliore), sia l’imago stessa. Una proprietà transitiva che tende a consolidare il punto d’appoggio fra passato e presente, fra tradizione ed innovazione. Per questo, l’arte di Linda ha un’anima storica, che non rinuncia alla figurazione, all’immaginario come filtri tra percezione e pensiero. È un’arte che fissa i ricordi, individuali e di gruppo, e – così facendo – ridona senso agli eventi; in virtù di tale contenuto (vita propria ed altrui, storia di militanza e d’indagine sociale, di canto e di lotta), dunque non solo al momento di fissare la forma al telaio, le opere di Linda divergono dalla loro realtà empirica in senso stretto. Esistono infatti, nello sguardo dell’artista, una latente collettività, un’etica intrinseca di partecipazione, a potenziare la rivelazione creativa. Animata da simili presupposti, Caorlin non cade mai nel tranello delle categorie, degli spartiacque. Preferisce, invece, partire da interrogativi precisi (e, così facendo, pesca non solo rane, ma anche pepite d’oro…intuizioni, le chiamano). Resta da definire, per nostra meraviglia, quel leggero vento che intuiamo nella trama, il filo illogico che talvolta spagina le convenienze e le nutre di una magica ironia. È solo un attimo, un battere di ciglia, il diamante intravisto sul fondo dello stagno. Lo sguardo di Linda.

Francesca Brandes  

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Abbiamo conosciuto Teodolinda Caorlin ed il suo lavoro  all’inizio degli anni 2000. La sua tecnica minuziosa, i suoi fili sottili, incrociati a trama e ordito, la portarono in quegli anni a realizzare figure quasi immaginarie ed eteree, figure virtuali. Ci era piaciuto il modo moderno e personale con cui veniva rivisitata una tecnica classica come quella dell’arazzo, e lo sguardo caldo, emozionato ed emozionante che l’artista rivolgeva alle persone che raffigurava, alle loro contraddizioni, alla loro solitudine. E dalle virtù di allora oggi Linda si cala nella realtà e, forse a fronte dell’oggettività presente, ci propone i sette vizi capitali, immagini dense di realtà immerse nei loro pensieri, nelle loro ansie, nei loro peccati…Le figure che rappresentano i vizi non sono marchiate da stigmate, non sono brutte o laide; sono persone come tutte le altre, sono persone come noi, e non suscitano disprezzo o riprovazione, ma comprensione e un senso di vicinanza. Non sono solo peccatori, ma esseri umani, “Umani, troppo umani”, parafrasando Nietzsche. Così compaiono, come definiti da Aristotele, “gli abiti del male” appunto, abiti tessuti su chi sa solo ripetere azioni non proprio esemplari. E questa non poteva essere che una scelta fatta da un’artista “tessile”: riportare in quegli abiti i desideri irrefrenabili, le tristezze e le esagerazioni, gli abbandoni e le vendette, i torpori e le inerzie. Tutti sapientemente intessuti nelle trame e negli orditi, tutti nati dal semplice intreccio infittito solo in alcuni punti. Ed infine gli occhi, quegli occhi così grandi che ti guardano. Stupiti? o solo ansiosi di superare le debolezze e tornare ad essere uomini e donne? Ti ringraziamo, Linda, per averci donato queste nuove immagini che sicuramente resteranno nei nostri ricordi e per aver riportato la realtà di oggi a pratiche e valori, questi sì, non superati.

Arte & Arte, Como 27 ottobre 2011

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…. Le figure realizzate dalla Caorlin (nata a Venezia nel 1946, dove vive e lavora)rispondono ad un’urgenza legata alla dimensione personale, talora  intima. Cascate di fili plumbei dai bagliori argentei imprigionano lievi apparenze fantasmatiche, dalle quali scaturisce una tensione e un bisogno di sondare la complessità delle relazioni  con una funzione quasi catartica, non priva di sfumature ironiche. Se le allusioni formali sembrano avvicinarle alla Pop Art (soprattutto quella inglese più raffinata ed intrecciata con le avanguardie storiche), uno sguardo più attento ci spinge verso iconografie più rarefatte e sublimate, prossime all’arte bizantina. A dispetto della forza plastica e del severo e metallico cromatismo, sono visioni eteree e incorporee, figure di soglia, come altri lavori dell’artista, drappi che chiariscono e scandiscono il limite tra due stati e due mondi, tra noto e ignoto, tra luce e tenebra. Questa porta che si apre sul mistero siamo invitati ad attraversarla. Questa soglia ha il valore di un atto dinamico che coinvolge l’aspetto psicologico, è un passaggio che mette in comunicazione interno ed esterno,  velo di Maia che non sappiamo se scostare o continuare a guardare.

Valerio Vivian

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…….Se la figura è programmaticamente assente nei lavori di Sarah Seidmann ,è invece presente,e perentoriamente,nell’opera di Teodolinda Caorlin.Penso innanzi tutto alla serie di “ritratti” e dei “personaggi” degli anni ’90,una originale interpretazione in chiave ” tessile”della semplificazione pop e ancora all’insieme di più elementi intitolata Liaeson,del 2001, una proposta innovativa anche dal punto di vista ideativi.Silhouette di uomini e donne inscritte all’interno di un ordito che scende dal soffitto fino a terra, in una imponente frontalità che non può non rammentare l’iconografia ravennate.Usufruendo del medium fotografico come molti artisti hanno fatto anche in tempi recenti(penso a Pistoletto). Teodolinda Caorlin fa affiorare figure monumentali da un supporto sottile,piatto, operando per contrasto tra leggerezza del materiale e solidità apparente della forma che vi è inclusa. Imprigionate nelle stuoie verticali le figure umane esibiscono tutta la loro aleatorietà, proprio quando la grande dimensione e l’effetto del vero dovrebbero attestarne la preminenza visiva. Probabilmente Caorlin appunta il suo sguardo ironico su quella che rimane a tutt’oggi una delle più “guardate” azioni femminili, la sfilata di moda; e bloccando le sue figure dentro le strisce di stoffa sembra suggerire che basta poco,un niente, per fare sparire uno dei simboli della società dei consumi: basta afferrare il filo e le immagini possono essere a loro volta “sfilate”, fino a sparire.

Nico Stringa per la mostra “tracciati di filo e di segno”- Badoere (TV) 2003

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L’ arte tessile è stata a lungo considerata un’ arte ‘minore’, una, seppur squisita, téchne  artigianale basata sull’ abilità, l’ ingegnosità e la sensibilità estetica. L’ invenzione formale nonchè bandita, è stata sempre subordinata alla produzione di arazzi, tappeti, tessuti, incamerata dall’ eccellenza del ‘pezzo’, non mai valevole per se stessa, per autonoma evidenza estetica. Del resto, anche le arti ‘maggiori’, nel passato, non erano immuni da considerazioni esterne alla ‘forma pura’, avevano delle funzioni (diletto, celebrazione, persuasione ecc…) e competenze esecutive di tipo artigianale. Col tempo, con i moti d’ indipendenza artistica che scoppiano nel tardo Ottocento e si protraggano in tutto il primo Novecento, l’ opera assume sempre più il carattere di una forma di coscienza autonoma, sensibile e fabbrile, per sua natura oggettivante, concreta; un tipo particolare di conoscenza che si basa sulla identità eidètica di pensare e fare. Ma per l’ arte tessile si è mantenuto a lungo un equivoco che a volte assume i tratti dell’ ipoteca, a volte -dati i tempi della consapevolezza  estrema che corrono dal dopoguerra- quelli della originalità estetica. L’ ipoteca riguarda una molesta e recidiva attribuzione al novero delle ‘arti applicate’, l’ originalità, i modi della creazione formale autonoma. Il medium  del telaio e delle sue tecniche, l’ uso di materiali in grado di ridursi ad un corpo di filo, possono costituire dunque un limite ma anche una singolare specificità di ricerca artistica. Tutto dipende dal soggetto creatore, come in ogni arte, sia che si usi marmo o pure allusioni mentali. Se i passaggi tipici, caratterizzanti -che richiedono studio (in senso etimologico, di studium) e grande esperienza- vengono investiti nell’ esito realizzativo, allora è lecito parlare di ‘arte applicata’ (senza moralismi, ma con il gusto del giudizio critico), di pensieri formali ‘appositamente’ sviluppati, di una progettualità -per quanto alta- basata sulla funzionalità della trama e dell’ ordito. Se questi stessi passaggi vengono invece considerati sedi creative, ambiti di ricerca, di esperienza estetica autosufficiente che s’ innesta sulle proprietà specifiche del telaio, della texture, delle materie, allora, almeno come disposizione intenzionale, si può parlare di opera d’ arte tout court, in grado, come qualsiasi altra, di essere giudicata in sè, nella sua autonomia linguistica, nella sua qualità di invenzione formale. Le due artiste venete, Teodolinda Caorlin e Wanda Casaril, rappresentano due modi molto diversi e ben significativi, di considerare l’ opera tessile come fenomeno artistico. In modo esemplare, poichè la loro diversità è tale da permetteci di individuare due polarità nell’ area tessile: da un lato la ‘struttività’ (come ebbe modo di definirla Filiberto Menna, che più volte si occupò di questo settore) propria del medium  sul versante della tradizione, quella più caratterizzante del ‘gobelins’; dall’ altra la ‘destruttività’ contemporanea della fisicità dell’ opera a telaio, che mette allo scoperto le fibre, rivela le materie e i loro campi di attrazione, mette in scena una particolare ambiguità estetica, inquieta mimesi della ‘schiavitù’ del telaio. Wanda Casaril si muove impeccabile all’ interno di un preciso universo, quello dell’ arazzo. Senza opzioni radicali, senza sabotaggi semantici o tecnologici, la Casaril piega la natura operativa e concettuale dell’ arazzo al suo delicato racconto per immagini e segni, riservando l’ identità d ‘ artista all’ immaginazione cromatica e al déplacement  figurativo sospeso tra la memoria e la favola, tra il mito e la natura. Il tipo particolare di scarto creativo della Casaril trasforma un processo storicamente esecutivo a fini rappresentativi, in un ordine compositivo a fini poetici dato dalle disposizioni cromatiche ‘interne’ e dalla forma ‘esterna’ dell’ arazzo. Le prime si dispongono come apparizioni ed affabulazioni di elementi di varia origine iconica, ora astratti ora figurativi, ora diafani al limitare della dissolvenza, ora accesi e giustapposti sino a ricordare, talvolta, le turbolente sagomature di Depero. La suggestione delle varietà cromatiche, di avventure formali che di norma appartengono al mondo della pittura -prima fra tutte la disposizione per piani-, assumono un significato del tutto particolare se si considera che accadono all’ interno della fitta tramatura ‘gobelins’. Si crea, così, un singolare contrasto tra la levità del mondo libero della fantasia, nonchè dei segni vaganti e sospesi senza più figura, e la ferrea legge tessile del ‘gobelins’, così solidale ed ordinata, stretta per infiniti nodi che scandiscono gli infiniti incontri dei fili verticali della trama con quelli orizzontali dell’ ordito. L’ inesorabile intreccio della gabbia accentua il contrasto con i librati e volanti lacerti di figure, con i segni vaganti, le bolle che si gonfiano, le scie cromatiche che si incastrano a pettine, le punte e le gobbe che hanno il piglio di nuvole e di stelle, i brevi inserti geometrici che qualificano lo spazio come uno spazio libero, infinito, redatto a telaio. Le soluzioni formali ‘esterne’ rigurdano la forma dell’ arazzo, cioè il suo modo di mutare di continuo, di aprirsi in striscie scalari, fettucce pendule, tasselli scollati. E’ il modo dell’ artista per aprire l’ arazzo, renderlo capace di farsi campo idoneo alla leggerezza dei segni, spazio e luce esso stesso, non mero supporto. Teodolinda Caorlin conduce la sua poetica nel luogo segreto della germinazione delle forme a telaio, dove tecnica e filosofia si danno convegno per serbare un’ identità, senza disperderla al vento della riproduzione, priva di magia anche se degna di magistero, e trasforma questo luogo in una scena. L’ artista conosce ed ama liberamente il teatro quanto il telaio, le emozioni della messinscena quanto quelle della trama. Ora questi due orizzonti di coscienza creativa sono usciti allo scoperto ed avvicinati senza pregiudizi. La struttura tessile generata dal telaio è vaga leggera, quasi ordito di colore e trama di luce, ricorda il significato della parola antica dell’arazzo: aulaeum, cortina e sipario, tappezzeria del vuoto, arredo dell’ aria. Queste ‘soglie’, come l’ artista le chiama, pendono libere e morbide, si afflosciano lievi, trapassate da spifferi e bagliori, da vibrazioni percettive che trascolorano in favore di luce. Queste opere tessili sembrano così modellate appena dall’ accordo tra la leggerezza della materia e le leggi della caduta per gravità, del desiderio di perpendicolarità (richiamo della terra, di una solidità terminale sopra cui abbandonarsi). Lo stesso accordo esiste tra la luminosità cangiante delle fibre intessute, mai quieta, mai doma, e la generalità immobile della luce intorno. Nel musicale rincorrersi della trama lungo i fili dell’ ordito, nella rivelazione delle regioni segrete della vita bidimensionale del telaio, la Caorlin intona un canto che si affaccia nitido e prezioso come regine bizantine, tesse un manto aulico appeso come una tenda provvisoria dove la materia e la luce si scambiano il posto di continuo, e le fettucce aperte nel suo mezzo sono come fili di preziosi al loro invisibile collo. L’ attrazione per il teatro può rivelarsi feconda anche alla stazione d’ arrivo di una storia che ebbe inizio a telaio, può elaborare un evento formale al crepuscolo della materia tessile fattasi, per avventura della sorte, indumento e recita. Sarà allora la memoria a evocarne la grazia polverosa, la concreta nostalgia dei miti personali.

Virginia Baradel

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Teodolinda Caorlin:  una “fiamminga” a Venezia Il suo nome non  deriva dal greco, come pensavo, ma dal germanico (Tdlinde, cioè Teodolinda, come la più celebre regina dei Longobardi) , e significa “a difesa del popolo”, attitudine che la caratterizza profondamente. Il suo percorso di vita personale, la sua concezione sociale del mondo, il suo pensiero sulla storia delle donne e sull’essenza femminile, si materializzano, in questa mostra, in otto grandi arazzi, realizzati, in due anni di lavoro, su telaio orizzontale “a basso liccio”. Su ordito scuro, abbastanza rado, l’opera è prodotta con trame policrome a otto capi di tonalità differenti, che donano ai colori effetti cangianti. Vi sono rappresentati alcuni aspetti dell’universo femminile, otto concetti, sette dei quali legati ai “vizi” per eccellenza, resi nell’iconografia pittorica fin dal Medioevo (si pensi alle raffigurazioni di Giotto nella padovana Cappella Scrovegni) con immagini muliebri, l’ottavo , aggiunto dall’artista, quasi come loro inevitabile conseguenza. Teodolinda ne esclude a priori ogni negatività concettuale e, travalicando qualsiasi pensiero religioso, riflette sulla condizione umana e su quelli che spesso sono detti impropriamente peccati capitali. Definiti da Aristotele ” abiti del male”, i “vizi” derivano dall’ossessiva ripetizione di azioni determinanti nel soggetto che le compie una sorta di “abito” che lo inclina in una certa direzione. Kant li considera parte del carattere umano con potenzialità di diventare patologie psichiche quando viene oltrepassata la soglia di un comportamento raziocinante e assennato. Non vizi, non peccati, non colpe, dunque, ma ineluttabili status, condizioni ossessive correlate all’esistenza e alla sopravvivenza, separate dalle qualità e dalle virtù da un limite sottile: Superbia, ostentazione di superiorità; Avarizia, bisogno di accumulare; Lussuria, smània del sesso ; Invidia, sofferenza per il bene altrui; Gola, bulimia distruttiva; Ira, volontà di vendetta; Accidia , inerzia del vivere. Alle suddette “condizioni”, Teodolinda aggiunge l’allegoria della  “Paura”, della morte innanzitutto, che ci accompagna dalla nascita,  e poi della vita, tanto forte a volte da sconfiggere la prima e portare assurdamente al suicidio.    A controllare (e forse provocare?) i comportamenti sinteticamente analizzati, per l’artista potrebbero essere gli sguardi degli altri, dell’Altro (di Dio forse?). Resi sotto forma di occhi severi, su sfondi cromatici che riprendono i colori base delle figurazioni simboliche, accompagnano infatti il percorso delle opere in  mostra. Entrando nel suo laboratorio, ancor prima che lei mi raccontasse  le motivazioni intellettuali del suo lavoro, alla vista di quelle enormi Donne, sofferenti, imbrigliate tra i fili del loro “vizio”, ho sentito una forte emozione, per la bellezza e la forza che sprigionano. Teodolinda Caorlin, favorita da doti naturali quali sensibilità  e talento, ha poi maturato, nel corso delle sue vicende di vita e professionali, grande abilità manuale tessile, giungendo a tali livelli di padronanza tecnica virtuosistica, da poter essere paragonata, senza retorica né tema di smentita, ai mitici arazzieri fiamminghi del secolo XV. Per sapere di più su chi lei sia, e su quale importanza abbia non solo nel campo della Fiber Art, ma dell’ARTE tout court, è sufficiente leggerne biografia e curriculum, ricchissimo di mostre e premi prestigiosi. Dopo aver frequentato il triennio all’Istituto d’Arte e il biennio al Magistero d’Arte, Teodolinda comincia nel 1963 a creare le sue prime opere tessili, con la tecnica dell’arazzo e, più raramente, del tappeto (nodo ghiordes), a decori geometrici-astratti, contrastanti e vivaci nei colori, delegando ” gli effetti speciali” all’alternanza di filati diversi negli spessori e nelle fibre, al susseguirsi di zone piene e vuote, all’avvicendarsi di superfici piatte e rugose, rilevate e frangiate. Alla fine degli anni ’70 sperimenta altri nuovi materiali, integrando ai consueti cotone, lino, canapa, lana, anche juta, rafia, fibre sintetiche e perfino seta, perline vitree, lamé, ecc. Negli anni ’80 la pluralità di studi e ricerche si rivela nelle ispirazioni ai tessuti copti, nordici, giapponesi, e perfino all’antica tessitura preistorica mediterranea a pesi.   Le riesce naturale combinare tecniche “miste”, dal “gobeline” alle annodature (ghiordes e sumak), dalla spolinatura al ricamo , e pur continuando nel corso degli anni’90 a  preferire i manufatti  di notevoli dimensioni, che le consentono installazioni spettacolari intitolate: “sipari”,  “siparietti”, “muri  molli”, “soglie impossibili”, “scialli”, non teme di  realizzare anche minitextils con metalli preziosi e corallo. Compaiono con sempre maggior frequenza, opere figurative:  autoritratti e ritratti realistici e iperrealistici, ma anche  ectoplasmi, fantasmi, ombre. Non si tratta di pittura su tessile, come talora capita di vedere nell’ambito della Fiber Art, ma di vera tessitura ad arazzo, su telai a basso o alto liccio. Nel decennio successivo persegue a declinare ilsuo personale linguaggio espressivo nell’investigazione dell’anima, dell’interiorità, della verità nascosta al di sotto dell’apparenza. Rispetto al lato oggettivo privilegia sempre quello emotivo, per scoprire il quale servono “occhi”, tanti, diversi , introspettivi, che tesse su lunghe strisce verticali e orizzontali da affiancare emblematicamente a quelle personificazioni  degli aspetti umani sconfinabili nei “vizi”. L’esposizione viene completata da un’opera particolarmente tragica, intitolata “Hic Venetia iacet”,  una lapide  tessile simbolica che l’artista posa sulla grandezza passata e ormai sepolta della Serenissima . Di recente la sua vita e la sua opera sono state oggetto di una tesi di laurea specialistica a Ca’ Foscari, che non solo segna il raggiungimento di un evidente traguardo professionale, ma anche, “nel mezzo del cammin” della sua vita artistica, vuole essere di buon auspicio per chissà quali altre straordinarie tappe future.

Doretta Davanzo Poli Storica delle arti tessili Università Ca’ Foscari